Riflessioni e aspetti pedagogici

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L'Italia diventa zona rossa, avevamo appena assistito all'assalto ai treni, non appena anniunciato l'ennesimo bollettino delle 17 e mentre in massa si svaligiavano letteralmente gli scaffali dei supermercati, il genio e la creatività dai balconi, facevano risuonare un controcanto sulle note del "andrà tutto bene".

A fronte di cotanta contraddizione, tradussi in un documento delle riflessioni a carattere pedagogico, in merito all'importanza delle parole, riflessioni di seguito riportate.

 

In queste settimane particolari, viene costantemente sollecitata la nostra capacità di adattamento a tempi, modalità e ritmi, in forma inusuale e straordinaria, come non mai prima.

Riceviamo un martellamento imponente di stimoli a tutto tondo, compreso l’aspetto lessicale.

Parole vecchie e nuove che si mescolano tra loro, in un caleidoscopio di possibili significati, ai quali diventa importante cominciare a dare un ordine e un senso, se vogliamo evitare nell’immediato, dosi aggiuntive di confusione e prepararci ad affrontare al meglio le relazioni, una volta superata la fase di criticità clinica.

Nell’assoluto e prioritario rispetto per chi ci sta lasciando e per le loro famiglie, si rende necessario avviare riflessioni di prospettiva, non solo per onorare chi non ce l’ha fatta, ma anche per dare un senso di corretta speranza a chi si prodiga per il bene comune.

Cominciare a pensare al “dopo”, oltre ad essere un legittimo unguento ad effetto ansiolitico e antidepressivo, grazie alla intrinseca visione di prospettiva, acquista un valore pedagogico, in quanto può rappresentare un viadotto progettuale, su cui far transitare gli insegnamenti derivanti da questa esperienza.

Di seguito, una sintesi di quelle parole che se collocate con chiarezza lessicale e semantica, possono fin d’ora, avere una finalità educativa.

Tra i termini più utilizzati in questi giorni oltre a quelli implicitamente odiosi di stampo bellico, come: “guerra”, “bombardamento”, “trincea” e quelli intrisi di incertezza e dolore a carattere clinico, come: “sanificazione”, “paziente zero” e “tampone”, quello che spicca maggiormente in termini socio relazionali, apparentemente benevolo, che mi ha colpito maggiormente, è stato “fratellanza”.

Mentre sugli altri mi riservo di approfondire dopo un confronto specifico, che vorrei sviluppare insieme agli amici del gruppo “psico-giuridico” di cui faccio parte, su “fratellanza” e altri che farò seguire in questo scritto, mi sento di esprimere riflessioni personali e professionali.

Riscoprire la “fratellanza” ai tempi del covid 19, potrebbe essere pericoloso e altamente inautentico, quanto il non praticarla mai.

Pericoloso e inautentico, in quanto “spot” che odora di opportunismo, come quando ci abbracciamo se la nazionale di calcio gioca e vince una partita di qualificazione per la coppa del mondo, ma anche pronti a “scannarci”, se apparteniamo a squadre di club opposto, oppure, a incitare il nostro fanciullo di nove anni, fuori dal campetto di una squadra di provincia, con un: “spezzagli le gambe”, indicandogli un giocatore dell’altra squadra.

Una fratellanza che diventa opportunista e ipocrita, quando ri-scopriamo l’importanza di medici e infermieri erigendoli a “salvatori della vita”, dimenticando che le vite le salvano da sempre, sovente in condizioni di precarietà organizzativa, sotto organico e mal pagati.

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Gli stessi medici e infermieri, che fino al giorno prima della violenta entrata in scena del covid19, venivano malmenati nei pronto soccorso o nelle postazioni di guardia medica, spesso purtroppo, nell’indifferenza collettiva.

La stessa “fratellanza” che ci ha visti uniti quando una parte di noi saccheggiava i supermercati, o incuranti del danno collettivo, intasava le stazioni ferroviarie del nord, o ancora, vendere (e acquistare) mascherine e disinfettanti a prezzi criminali o quando ancora, incuranti e irrispettosi delle morti crescenti, politici sciacalli recitavano rosari per raccattare consensi, imbonendo le masse.

No, non credo a questa fratellanza reattiva e di convenienza; non è credibile, in quanto figlia di una precaria gestione delle emozioni e determinata dalla forzata quanto violenta, sottrazione delle nostre illusorie certezze, nella sempiterna lotta per la sopravvivenza.

Mettendo insieme come fossero fotogrammi in sequenza, queste immagini e affiancandole alle bare che non trovano sepoltura, come frammenti mnesici, mi tornano Freud, Gesualdo Bufalino e Rousseau.

Freud, quando ci ricorda quanto “eros e thanatos” siano presenti costituendo la nostra intima essenza, in una permanente tensione conflittuale; Rousseau, quando sottolinea che veniamo al mondo “selvaggi” e spetta alla società “educarci” e infine Bufalino, che ne “il Malpensante”, sottolinea quanto si possa polarizzare la stupidità degli stupidi: "vi sono due razze di stupidi: quelli che credono a tutto e quelli che non credono a niente".

Tutti e tre, ci rimandano a delle inevitabili riflessioni che sarebbe appropriato cominciare a fare, se vogliamo non solo superare il delicato momento, ma soprattutto, ricostruire su basi di consapevolezza differenti da quelle del passato, che sembra non essere stato un buon insegnante.

Vivere questo momento come opportunità, rischia di essere un altro errore, in quanto come ci ricordava l’amico Marco Francesconi (durante il confronto al quale accennavo prima), l’opportunità (dal latino opportunus, derivato di portus, ossia "verso il porto più favorevole"), è quella caratteristica di ciò che è o che appare favorevole al verificarsi di un qualcosa, in termini di convenienza.

Cosa ben diversa e distinta da occasione (occasio-onis), cioè qualcosa che accade e dal quale prendere spunto per potersi migliorare (cogliere l’occasione appunto).

Benché i due termini spesso vengono usati a torto, come sinonimi, il ribadirne gli aspetti semantici, in una delicata situazione come questa, non solo aiuta il processo di chiarificazione, ma getta un ponte su cui ricostruire.

In sintesi: l’opportunità scivola con maggior facilità nell’opportunismo, garantendo il mantenimento di uno status quo certo, di cui ci lamentiamo, ma dal quale non sappiamo distaccarci; l’occasione, crea le condizioni per una pedagogia implicitamente portatrice di cambiamento.

Conoscenza, spazio e tempo

Tra gli altri termini che mi affollano la mente in questi giorni, ci sono: conoscenza, spazio e tempo.

Andando in ordine, credo che l’esperienza che stiamo vivendo, offra la possibilità di approfondire la conoscenza, nelle sue diverse accezioni e dimensioni.

Ad esempio, in conseguenza della “costrizione” domestica, avendo più tempo a disposizione (compreso chi lavora in smart working), molti di noi, hanno recuperato spazi della propria giornata da dedicare a: lettura, visione di video o film, ascolto della musica o ad imparare a fare il pane in casa. Attività che in tempi ordinari, avremmo confinato in recinti probabilmente molto più limitati. Ma la conoscenza che più mi sollecita riflessione sotto il profilo educativo, è la conoscenza verso noi stessi e verso le persone con le quali condividiamo la nostra vita, fino a mescolarsi con la dimensione spazio.

I nostri familiari, le persone che “conosciamo da sempre”, anche in una dimensione di intimità scandita e scippata dalle convenzioni e dai tempi sociali, sono le stesse che ora siamo “costretti” a conoscere in una dimensione di spazio ridotto, circoscritto alle mura domestiche, dove il tempo è dilatato e protratto, fino al suono di una campanella che non sappiamo quando arriverà.

Una sperimentazione improvvisa, in cui la regola del “più tempo in meno spazio”, crea una nuova dimensione comunicativo-relazionale che porta a mettere in luce aspetti che oltre ad essere ignoti ai nostri cari, potrebbero essere ignoti a noi stessi.

Da una dimensione di questo tipo, ne possono derivare comportamenti che allontanano, oppure che avvicinano. L’occasione (occasio-onis), per realizzare soprattutto i secondi, va colta e sviluppata attraverso l’incentivazione degli aspetti educativi e valoriali, traducibili ad esempio, nella conoscenza dei propri limiti e nell’apprendimento del rispetto.

Nella “parabola dei porcospini”, Schopenhauer (poi Freud), ci ricordano quanto bisogno abbiano anche i più solitari, della prossimità altrui, ma anche quanto possa essere “doloroso” l’avvicinarsi troppo. Un’analisi lucida delle dinamiche umane, che chiosando sull’apprendimento con: “…finchè non ebbero trovato, la giusta distanza reciproca”, ne evidenzia la potenza educativa, di portata straordinaria, verso la quale, in un momento drammatico come questo, deve (o dovrebbe) rivolgersi il nostro impegno, nel conoscersi per conoscere e comprendere e, nel fidarsi per affidarsi.

Parole che nella dimensione domestica confinata, possono risorgere e riempirsi di significato, attraverso un continuo e costante mirroring in cui le ombre, possono con più facilità essere portate in chiaro, consentendo un percorso di reciproca crescita personale, fatta di ritrovata tolleranza e solidarietà, animate dalla consapevolezza che ciò che costringe fisicamente, libera l'intelligenza emotiva e il genio creativo.

Ecco allora che per affrontare tutto ciò, diventa necessario considerare la dimensione tempo.

Il tempo “ordinario”, quello misurabile in sequenze di minuti, ore, giorni, mesi e anni, denominata dai Greci “chronos”, nell’attuale soprattutto in occidente, ha sequestrato parti importanti delle nostre vite al punto da farci inserire nel lessico quotidiano (spesso in forma giustificatoria), frasi del tipo: “…non ho fatto in tempo”, “…non c’è stato il tempo”, “…se avessi avuto tempo”, facendoci diventare simultaneamente, vittime e carnefici del tempo, in una sorta di ambivalente sindrome di Stoccolma, dove l’aguzzino è rappresentato dalla nostra perduta capacità di governare il tempo stesso. Essere abituati a questi ritmi e trovarsi dall’oggi al domani, in una dimensione di tempo “sospeso”, si propone ancora una volta come occasione da cogliere e necessariamente da riorganizzare, in termini pedagogici.

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Pensiamo a come si potrebbe passare il tempo con i nostri figli o con i nostri cari, ristrutturando la giornata, secondo una scala di priorità, che li tenga in considerazione in una logica diversa dalla consueta routine dalla quale proveniamo. Un tempo da progettare e programmare assieme a loro, in momenti riflessivi, creativi e divertenti; facendo anche cose mai fatte o accantonate per “mancanza di tempo” determinato da lancette di un orologio artificialmente accellerato.

Un re-engineering del tempo, molto vicina alla dimensione che i Greci chiamavano Kairòs: il tempo debito.

Molto simile come situazione di indeterminatezza, a quello che stiamo vivendo seppur nella sua drammaticità, in queste settimane; kairòs rappresenta il momento giusto per superare un punto critico, l'occasione inedita e (speriamo) irripetibile nei suoi aspetti nefasti, ma da afferrare al volo per poter imparare.

Come fece Viktor Emil Frankl che sopravvisse ai campi di sterminio, dando vita alla “logoterapia”, il terzo metodo della scuola Viennese, dopo Freud e Adler.

Secondo Frankl, l’equilibrio psichico dell’uomo dipende dalla significativa percezione del sé, del proprio vissuto, in una progettualità che pone nella “ricerca di senso”, i mattoni necessari ad una ri-edificazione di se stessi.

In sintesi, ci aiuta a riflettere su come, partendo da situazioni estreme e destrutturanti, si possano trovare fiammiferi, lumini e torce capaci di illuminare il tragitto, prima ancora della fine del tunnel.

Una condizione, una qualità dell’essere umano, che presumo Frankl, mai avrebbe immaginato, potesse essere chiamata anni dopo “resilienza” (adattando un termine proveniente dalla fisica, legato alla capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi).

Ignaro come De Andrè, che nel 1967 chiude “via del campo” con: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

Contributi in forma scientifica e poetica insieme, utili a portare chiarezza lessicale e dare un significato alla speranza.

Per concludere, vorrei tanto che questa tragica emergenza, ci insegnasse quanto siano importanti: umanità, solidarietà e rispetto per la conoscenza; che l'uso improprio delle parole, lasciasse il posto a riflessione e dialogo affinché ci si possa riappropriare di un lessico adeguato.

Nella consapevolezza che le parole sono spesso prodromiche di comportamenti, alle odiose terminologie belliche, preferisco riflessività, strategia e tattica degli scacchi.

Non sono un giocatore di scacchi, ma ne sono affascinato perché negli scacchi, si combatte una guerra senza guerra e si muore senza morire. Dove l’intelligenza vince e impara dall’errore.

©Studio Pedagogico Pavese – 1 aprile 2020

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